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FOCUS
Web, data center e CO2
 

Verso una nuova sobrietà digitale

 
 
 

Entro il 2025 un quinto del consumo energetico mondiale sarà imputabile al settore ICT. Lo dice il ricercatore svedese Anders Andrae in uno studio pubblicato ...

 
 

 

mercoledì 12 maggio 2021

 

 

Entro il 2025 un quinto del consumo energetico mondiale sarà imputabile al settore ICT. Lo dice il ricercatore svedese Anders Andrae in uno studio pubblicato sul Guardian. Le stime prevedono che il settore sarà responsabile del 5,5% delle emissioni nocive di diossido di carbonio (CO2) a livello mondiale e di cui circa il 3% sarà ad opera esclusiva dei data center (circa 1,9Gt di CO2). D’accordo anche l’Agenzia francese per la gestione dell’energia (Ademe) che sottolinea come “il consumo di energia elettrica legato allo sviluppo delle tecnologie digitali sta letteralmente esplodendo”.

Immaginando il web come fosse un paese, si stima, che si collocherebbe al quarto posto per emissioni di CO2 dopo Cina, Stati Uniti e India, con un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno, cioè 400 grammi per ogni utente di Internet. Tra social network, videochiamate, chat e videogame online, l’impronta di carbonio è notevole, si pensi che solo lo streaming video arriverebbe a circa 300 milioni di tonnellate, più di quanto ne produca la Spagna da sola.

Qualche dato per averne un’idea concreta: una singola email, senza allegati, consuma quanto una lampadina accesa per due ore, comporta il consumo di circa 25 wattora e disperde nell’atmosfera circa 4 gr di CO2. Ogni secondo Google elabora 47mila richieste da parte degli utenti, per un totale di 500 kg di emissioni di CO2 prodotte. Considerando che il motore di ricerca viene visitato più di 3,5 miliardi di volte al giorno, c’è chi inizia ad interrogarsi sulla necessità di razionalizzarne l’uso. In Inghilterra hanno calcolato, ad esempio, che se la popolazione prestasse più attenzione alle email, evitando di inviare quelle che non sono necessarie dove magari c’è solo un “grazie”, equivarrebbe al togliere dalle strade 3.300 macchine diesel. Anche i dispositivi utilizzati incidono in maniera differente: accedendo a Internet da un computer fisso si consuma circa 100 wattora mentre, da un pc portatile solo 20 e i valori scendono ancora per quanto riguarda smartphone e tablet.

Da gennaio 2019, Internet ha raggiunto il 56,1% della popolazione globale, con 4,39 miliardi di persone, in aumento del 9% rispetto a gennaio 2018 e, in media, ogni utente riceve tremila messaggi fra sottoscrizioni e email indesiderate. Ciò si traduce in una sempre maggiore quantità di dati prodotti, che secondo le stime, seguendo il trend attuale, arriverà entro il 2025 a un volume di circa 180 zettabyte, 18 volte più grande di quello del 2015 ( Lo zettabyte è l’unità di misura che segue il già gigantesco exabyte e indica un trilione di gigabyte ).

Il grande consumo di energia del Web, come già detto, non è tanto dovuto all’utilizzo della posta elettronica ma piuttosto ai computer, da tavolo o portatili, e agli schermi a cui si deve il 40% dei consumi. E poi server e data center, l’infrastruttura del Web, che da soli valgono un altro 30%.

I dati, infatti, per essere immagazzinati necessitano di server farm, che vengono ospitate in enormi “centri di dati” sparsi per il mondo, che per rimanere in funzione necessitano di grandi quantitativi di energia. La spesa in data center oggi si aggira intorno ai 44 miliardi di dollari, ma crescerà del 13,5% l’anno, fino ad arrivare al valore di 84 miliardi di dollari solo nel 2022. A ciò non si può non aggiungere il grande problema dello smaltimento hardware che impatta notevolmente sull’ambiente.

Per queste ragioni, già molte aziende di storage-dati, oggi, si muovono in un ottica di sostenibilità già dalla progettazione dei data center, puntando sulle fonti rinnovabili, riducendo al minimo le emissioni e migliorando l’efficienza dei processori.

Puntare all’efficienza e al risparmio energetico riguarda ogni aspetto della tecnologia“, spiega da Londra Andrew Buss, analista della Idc. “Basti pensare a quei processori che, secondo i compiti che svolgono, ormai spengono autonomamente le parti che non servono. In generale è una di quelle frontiere nelle quali si stanno concentrando le innovazioni più importanti, anche quelle che tocchiamo quotidianamente: oggi con uno smartphone puoi registrare un video ad altissima risoluzione senza esaurire la batteria. Qualche tempo fa sarebbe stato semplicemente impossibile”.

In Italia possiamo vantare uno degli esempi più virtuosi di data center, a livello mondiale. Aruba S.p.A, infatti, società da anni operante nel settore tecnologico e partner di numerose agenzie pubbliche e private, dal 2011 ha optato per il 100% di energie rinnovabili certificate per i propri data center. Come dimostra il nuovo centro dati in provincia di Bergamo, alle porte di Milano: il campus di dati più grande d’Italia dal 2017 funziona solo con il 100% di energie rinnovabili e pulite. Il campus viene approvvigionato da una centrale idroelettrica collocata localmente sul fiume Brembo e da un imponente impianto fotovoltaico con migliaia di pannelli solari che ricoprono quasi interamente la struttura. Ciò che non viene coperto da queste due fonti energetiche, è preso dalla normale rete, ma sempre certificato GO proveniente al 100% dal rinnovabile. I data center Aruba così progettati, prevengono l’immissione nell’atmosfera di quasi 18mila tonnellate di CO2 ogni anno.

In quest’ottica, Amazon Web Services, Google, Aruba, Ovhcloud e una lista di altri cloud provider, insieme ad associazioni come Cispe (Cloud Infrastructure Services Providers in Europe) ed Educa (European Data Centre Association) hanno sottoscritto il “Patto per la neutralità climatica dei data center”, un accordo di autoregolamentazione come impegno concreto per una tecnologia “verde” con l’obiettivo finale di rendere i data center collocati in Europa neutri dal punto di vista climatico entro il 2030. 

Anche il ministro alla Transizione ecologica Cingolani ha sottolineato più volte l’importanza di ridurre al massimo l’impatto energetico del cloud computing e la necessità di ottimizzazione del ciclo di vita dei rifiuti elettronici.

 “Il digitale non è sostenibile. – ha dichiarato – Con il digitale produciamo il 4% della CO2 (il doppio delle emissioni prodotte dal traffico aereo). Per questo, è necessaria un’idea di sobrietà digitale. Soprattutto ora, che con il Green New Deal europeo ci sono mille miliardi per progetti innovativi, si può guardare alla digital sustainability”. Qui, il suo “Manifesto per la sobrietà digitale” uscito per L’Espresso nel Febbraio scorso.

Con il digitale produciamo il 4% della CO2 (il doppio delle emissioni prodotte dal traffico aereo). Per questo è necessaria un’idea di sobrietà digitale. Soprattutto ora, che con il Green New Deal europeo ci sono mille miliardi per progetti innovativi, si può guardare alla digital sustainability