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INTERVISTA
Giacomo Borella, socio fondatore di studio Albori
 

Gli architetti che coniugano sviluppo ambientale e sostenibilità

 
 
 

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Giacomo Borella di studio Albori. Fondato a Milano nel 1993 insieme a Emanuele Almagioni e Francesca Riva, studio Albori ...

 
 

 

venerdì 14 gennaio 2022

 

 

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Giacomo Borella di studio Albori. Fondato a Milano nel 1993 insieme a Emanuele Almagioni e Francesca Riva, studio Albori lavora sui temi dell’architettura e del paesaggio, con attenzione alle questioni energetiche e ambientali, nel loro intersecarsi con la dimensione dell’abitare quotidiano. 

Studio Albori, fondato a Milano nel 1993, è un esempio virtuoso di integrazione fra architettura e rispetto dell’ambiente. Potrebbe raccontarci l’idea di sostenibilità che è alla base del vostro fare impresa?

Direi che siete troppo gentili… Ma forse devo precisare che noi non facciamo impresa, facciamo semplicemente gli architetti. Non siamo degli “imprenditori”, nel modo più assoluto: abbiamo tenuto in piedi il nostro studio per trent’anni in modo rocambolesco, senza investimenti e senza utili, ed è già buono se alla fine del mese siamo quasi sempre riusciti a darci uno stipendio. Credo sia importante rivendicare la tradizione millenaria del lavoro indipendente non finalizzato al profitto e al business, ma alla pratica di un mestiere sensato, possibilmente in qualche modo utile: Yosef, o San Giuseppe – in pratica: il papà di Gesù – non era mica un imprenditore, era un falegname!

Per quanto riguarda la sostenibilità, è un termine piuttosto vago e molto usurato, che preferiamo evitare. Diciamo che cerchiamo di fare dei progetti che siano assennati e decenti sul piano dell’uso delle risorse, degli aspetti energetici, termici, climatici, dei rapporti concreti con il contesto, ma è tutto sempre più complicato e spesso non ci riusciamo. Pensiamo sempre più frequentemente che forse dovremmo cambiare mestiere.

Edilizia 2.0. L’attenzione al riuso dei materiali è il futuro del settore nell’ottica della moderna economia circolare. È d’accordo?

Lavoriamo da molto tempo sul tema del riuso e riciclo dei materiali, che è stato per millenni parte integrante dei modi di costruzione dell’habitat umano. Proprio sulla base della nostra esperienza, dobbiamo dire che oggi è un modo sicuro per mettersi nei guai: abbiamo collezionato una serie infinita di disastri, cause, contenziosi, fallimenti. Negli ultimi anni, la situazione è diventata ancora più grottesca: ci invitano ai convegni su questa famosa “economia circolare”, ma sul piano concreto è diventato praticamente impossibile utilizzare qualsiasi materiale di recupero, se non attraverso processi e filiere altamente burocratizzati, finanziarizzati e delocalizzati che li trasformano in prodotti finiti da acquistare. Divengono così merci uguali identiche alle altre, solo con un cartellino che dice che contengono un tot per cento di materiale riciclato (cosa che è poi molto difficile da verificare…). L’ideologia della certificazione totale globale in realtà impedisce di fare quello che i poveri hanno fatto per secoli, senza bisogno di convegni e incentivi: riutilizzare ciò che era riutilizzabile, perché era necessario e sensato farlo.

Il PNRR ha stanziato oltre 54 miliardi sulla rigenerazione urbana. Ritiene siano sufficienti per rilanciare il comparto nell’ottica della transizione ecologica?

Anche qui c’è una questione lessicale: la formula “rigenerazione urbana” a questo punto non può non farci rizzare i capelli in testa. E’ diventata la definizione aggiornata di quella che una volta si chiamava semplicemente speculazione edilizia. Le architetture che vi si utilizzano sono sostanzialmente le stesse di trenta o quarant’anni fa: cemento armato, vetrate continue, plastica e polistirene, solo casomai qualche alberello in più, ma ora come per miracolo sono diventate tutte sostenibili e resilienti, certificate LEED platinum. Com’è questa storia?

Il fatto è che molto probabilmente l’idea stessa di rilanciare il comparto dell’edilizia non va d’accordo con l’entità della catastrofe ecologica che stiamo vivendo: forse si tratta di ridimensionarlo e riconvertirlo, molte industrie e filiere nocive dovranno andare in crisi, forse molte persone dovranno cambiare mestiere, senz’altro dovranno cambiare il modo in cui lo fanno. 

Ma il punto più importante è che l’ideologia assolutamente prevalente, secondo la quale tutto è riconducibile alla mera dimensione economica, e quindi alle risorse stanziate, è semplicemente una mistificazione. Possiamo stanziare anche 10 o 100 volte i miliardi del PNRR, ma senza un ripensamento radicale in termini di immaginario, di sensibilità e di finalità non avremo mai delle città più decenti. Si tratta inevitabilmente di iniziare a mettere in discussione il fatto che il successo, il potere, la competizione e la ricchezza siano fini adeguati per una degna esistenza umana. Altrimenti i rapporti tra gli uomini, e quelli tra gli uomini e l’ambiente, non potranno che continuare ad essere improntati allo sfruttamento. 

In Italia il 40% degli immobili ha oltre 60 anni, contro un valore medio in Europa del 32%; il 70% degli edifici è a rischio sismico, la media Ue è del 30%, mentre le aree verdi disponibili per ogni cittadino pesano per circa il 15% contro una media Ue che si attesta tra il 20% e il 30%. Next Generation UE e i fondi in arrivo dall’Europa basteranno per colmare il gap?

Mi spiace essere ancora in disaccordo, ma mi sembra che questa impostazione agonistica secondo la quale si tratta di “colmare il gap” è proprio parte del problema. Inoltre, questi dati statistici vanno anche interpretati, altrimenti si rischia di appiattire tutto su un piano astratto: è davvero un fatto negativo che il 40% degli immobili abbia più di sessant’anni? Non è che per caso invece è una cosa meravigliosa il fatto che nel nostro paese ci sia un patrimonio edilizio antico ancora in qualche modo vivo e vissuto? Che ci siano un sacco di case, strade, paesi e parti di città di origine medievale o romana? E’ la “forza del passato” che cantava Pasolini, che viene “dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini”, e che è “più moderna di ogni moderno”! Tra l’altro, è un fatto oggettivo che un edificio del Duecento, un trullo, o una casa walser, sono in linea di massima termicamente molto più efficienti ed intelligenti di un condominio degli anni Settanta.

Quale ritiene debba essere il futuro del Superbonus 110% e delle altre detrazioni fiscali?

Il famigerato Superbonus è una pura e semplice sciagura. Il fine in teoria è giusto, il risultato catastrofico. Ha drogato il settore edilizio, i costi dei materiali sono schizzati alle stelle; le continue scadenze ravvicinate, l’ambiguità delle norme, il succedersi delle proroghe, sempre incerte e da ratificare, la proliferazione burocratica, la moltiplicazione delle certificazioni e delle garanzie, creano una cornice in cui è impossibile produrre progetti decenti: le imprese, i tecnici, i fornitori stanno lavorando in condizioni da esaurimento nervoso. L’impressione è che ne stiano venendo fuori gli interventi di ristrutturazione più sgangherati di sempre, interamente finanziari con fondi pubblici. Lo stato sta stanziando somme incalcolabili a favore della parte più ricca della popolazione, i proprietari di immobili, e chi ha più immobili – cioè i più ricchi – usufruisce del massimo dei vantaggi. In compenso, la combinazione tra la cultura costruttiva media corrente e gli indirizzi tecnici forniti dalla normativa (in particolare i famosi CAM, Criteri Ambientali Minimi), sta producendo un uso massiccio e praticamente esclusivo delle tecniche edilizie più viete e dei materiali ambientalmente più nocivi, per cui sta avvenendo un vero e proprio festival di cemento, polistirene, pvc, aria condizionata, ecc… Insomma, è un caso da manuale di quella che mezzo secolo fa Ivan Illich aveva chiamato “controproduttività”, riconoscendola saggiamente come fenomeno strutturale e specifico della modernità.