INTERVISTA
Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace
Più sfuso, meno plastica!
Il ricercatore e attivista di Greenpeace Italia racconta la situazione del nostro Paese rispetto all’inquinamento da plastiche. Giuseppe, da ricercatore universitario studiavi in laboratorio le ...
venerdì 30 aprile 2021
Il ricercatore e attivista di Greenpeace Italia racconta la situazione del nostro Paese rispetto all’inquinamento da plastiche.
Giuseppe, da ricercatore universitario studiavi in laboratorio le sostanze pericolose che avvelenano noi e la Terra, per poi continuare a studiare e combattere la diffusione di queste sostanze attraverso il tuo impegno in Greenpeace. Qual è stato l’elemento decisivo che ti ha portato a prendere questa questa decisione?
La tutela dell’ambiente è un tema che mi sta a cuore sin da piccolo e i miei percorsi accademici hanno sempre tenuto conto di questa vocazione. Per anni mi sono occupato di ricerca in ambienti marini e costieri. Durante la mia attività di ricercatore, circa una decina di anni fa, ho notato la crescente presenza di materiale plastico sulle coste e nel mare. Proprio in quel momento il mondo accademico si approcciava per la prima volta al problema dell’inquinamento da plastica. Terminato il mio lavoro da ricercatore universitario sono passato all’associazionismo, con Greenpeace, mettendo in pratica le conoscenze acquisite nel mondo accademico.
La plastica, materiale poco costoso, versatile e duraturo per anni è stata la panacea per la produzione di oggetti in ogni settore. Quando ci si è accorti che questo magico materiale si stava rivelando deleterio per la salute del Pianeta e dei suoi abitanti?
L’invenzione della plastica è stata un grande progresso, poiché ci ha consentito di creare cose che altrimenti non potrebbero esistere. Il picco della sua produzione è avvenuto negli ultimi 20 anni e la sua presenza è ovunque: dalle profondità marine come la fossa delle Marianne, a 11 mila metri di profondità, alle vette alpine, ma si trova anche nel sale da cucina, in tanti abiti che indossiamo, nell’aria che respiriamo, nei cosmetici, nei prodotti detergenti etc. La plastica è ovunque. È l’emblema di ciò che è sbagliato nel nostro sistema produttivo che ci porta ad abusare di alcuni materiali, ignorandone i danni per la collettività e per il Pianeta. Poco più di 10 anni fa il problema della plastica è entrato timidamente nei laboratori dei ricercatori, in modo quasi casuale, attraverso lo studio di routine di organismi planctonici, piccolissimi microrganismi alla base delle catene alimentari marine. I ricercatori si resero conto che questi microrganismi contenevano cospicue quantità di piccoli frammenti colorati di materiale plastico e lanciarono il primo allarme.
Parliamo appunto di microplastiche, argomento a cui dedichi tanto studio. Raccontaci cosa sono e che danni stanno provocando alla salute non solo ambientale, ma anche degli animali e dell’uomo.
Le microplastiche sono la parte più subdola del problema, trattasi di frammenti di dimensioni inferiori ai 5 mm e invisibili all’occhio umano. Queste possono derivare da oggetti di uso quotidiano come dal tappo della bottiglia che stappiamo, dall’imballaggio di cibo che tagliamo con le forbici, dai vestiti che indossiamo, dai prodotti detergenti o cosmetici che mettiamo sulla pelle, dalle ruote delle macchine, dai fertilizzanti del settore agricolo etc. A riprova della loro invasività, alcuni studi hanno rilevato tracce di nanoplastiche anche nella placenta umana. Oggi non abbiamo prove certe della loro nocività per la nostra salute, ma neppure della loro inoffensività, per cui occorre prevenire un eventuale problema di domani. Sappiamo per certo che potrebbero rilasciare sostanze chimiche, possibili interferenti endocrini per tutti gli abitanti della terra.
Great Pacific Garbage Patch è l’isola di plastica più grande al mondo formatasi dall’inquinamento prodotto dall’uomo. Un triste esempio che dagli anni ’80 provoca ingenti danni alla fauna marina e non solo. Puoi parlarci delle conseguenze provocate da questo continente di rifiuti?
Sono aree che si formano negli oceani per una serie di correnti marine, che sarebbe più corretto definire come ‘zuppe di plastica’. Ma non sono presenti solo nell’Oceano, una si trova per alcuni periodi dell’anno anche a casa nostra, nell’arcipelago toscano tra Capraia e la Corsica. Sono aree che preoccupano noi ricercatori, basti pensare che quella italiana si trova nel bel mezzo del santuario dei cetacei, un’area marina protetta, di un estimabile valore naturalistico dove le balenottere mangiano, vivono, si riproducono e filtrano grandi quantità di acqua mischiate a microplastiche. Da alcune ricerche sui cetacei, attraverso una biopsia cutanea sulle balenottere dell’area, sono emerse elevate quantità di ftalati, ingeriti attraverso la plastica, probabilmente scambiata per cibo oppure perché mangiata dalle loro prede. Questo scenario testimonia il grave inquinamento che incombe anche nei nostri mari e quanto sia facile l’arrivo della plastica nei nostri piatti. Infatti si trovano microplastiche o derivati in vongole, gamberi, cozze e soprattutto in quei pesci che vivono più a contatto con i sedimenti, luogo in cui si accumula maggiormente la plastica. Da statistiche Greenpeace più dell’85% dei capodogli spiaggiati nelle nostre spiagge contiene plastica nello stomaco, emblematico è il ritrovamento di 24kg di plastica nello stomaco di una femmina gravida sulle coste di Portocervo, non si conosce la causa della morte dell’animale ma è probabile che la plastica potrebbe aver provocato un finto senso di sazietà. Lo scenario è allarmante ma la pandemia ci sta lanciando un messaggio da non sottovalutare “noi specie umana dobbiamo rispettare la natura e non soffocarla”. Bisogna usare meno plastica!
Da anni gli Stati più industrializzati del mondo hanno deciso di porre rimedio ai danni provocati da uno sviluppo economico insostenibile. Come valuti queste politiche e quanto ancora c’è da fare in questo senso?
La direttiva europea sulla plastica monouso del 2019, è stato un grande provvedimento, preso poi come esempio a livello mondiale. Da luglio 2021 sarà vietata la produzione di bastoncini cotonati, stoviglie monouso ma non si è ancora intervenuto ancora sull’altro grande problema: il packaging. Di tutta la plastica prodotta il 40% è imputabile al monouso, un esempio è la plastica che riportiamo dal supermercato e gettiamo immediatamente. Purtroppo la quantità di plastica che si riesce a riciclare è solo una minima parte, circa il 45% il resto finisce in discarica, inceneritore o disperso nell’ambiente. Pellicole, film degli imballaggi non vengono riciclati perché non vi è convenienza, rappresenta uno scarto del 50% della nostra raccolta differenziata. Questi sono dati nazionali, i centri di raccolta differenziata non hanno colpa ma il problema è la composizione di questi materiali, penso alle buste che contengono il caffè composte da plastica e metalli, sono non riciclabili. È necessario cambiare il problema a monte, quindi cambiare alcuni imballaggi e incentivare massivamente la vendita dello sfuso e della ricarica. Le bioplastiche sono un aiuto ma non una soluzione, perché derivano dal settore agricolo uno dei comparti maggiormente responsabile della deforestazione nel mondo. La situazione attuale non è idilliaca ma siamo ancora in tempo per cambiare la rotta e salvare il Pianeta di domani.