Elsa Fornero
 

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INTERVISTA
Elsa Fornero, economista
 

La sostenibilità è fatta di scienza e sentimento

 
 
 

Professoressa, che spazio ha la sostenibilità ambientale nell’economia italiana oggi? Credo che la sensibilità ai temi ambientali, magari cominciata in modi “sentimentali” e persino ingenui, ...

 
 

 

giovedì 4 marzo 2021

 

 


Professoressa, che spazio ha la sostenibilità ambientale nell’economia italiana oggi?

Credo che la sensibilità ai temi ambientali, magari cominciata in modi “sentimentali” e persino ingenui, sia oggi non soltanto più matura ma anche scientificamente fondata e possa quindi guidare le scelte e le azioni concrete che la politica non può più ignorare. Anzi, è possibile che il binomio tra scienza e sentimento, in questo campo più forte che in altri ambiti della vita sociale ed economica, possa veramente cambiare in meglio il nostro stesso concetto di benessere. Meno affidato all’aumento delle possibilità di consumo di beni e servizi e più centrato sulle soddisfazioni che possono derivare dal contatto con la natura e dalla consapevolezza di non “violarla” con le nostre scelte. È possibile cioè che la transizione green della quale tanto si parla – e che costituisce uno dei pilastri del Programma Europeo Next Generation EU – non rappresenti solo un veicolo di nuovi costi per l’attività economica ma sia invece vettore di nuova crescita, come avviene, per esempio, per l’istruzione, che non è “consumo” – come purtroppo è ancora considerata nella contabilità nazionale – ma investimento in capitale umano e sociale. Così è per l’investimento ecologico. D’altronde, è chiaro a tutti che la nostra economia negli ultimi decenni ha accumulato ritardi e accentuato difetti storici, che l’hanno resa meno capace di altre di confrontarsi con i grandi cambiamenti strutturali, come la globalizzazione, la digitalizzazione, l’invecchiamento della popolazione, il cambiamento del clima. Ne sono risultati una crescita alquanto modesta e un aumento della povertà, soprattutto tra le famiglie giovani. Investire in istruzione, formazione, ricerca e ambiente può invertire questo lungo ciclo negativo e segnare una vera svolta.

Le imprese italiane sono pronte per la green economy?

Credo che, come in ogni ambito, occorra distinguere, giacché la realtà non è uniforme ma fatta piuttosto di chiaro-scuri. C’è sicuramente un’imprenditoria pronta sia alla sfida digitale, sia a quella verde, e anzi già vincente. E non è necessariamente fatta solo di grandi imprese, che sono ovviamente avvantaggiate ma nettamente minoritarie nel nostro Paese. Vi sono moltissime piccole imprese innovative e dinamiche pronte alla transizione ma magari con problemi di credito. Ve ne sono altrettante che fanno fatica a crescere o anche solo a sopravvivere tra troppi problemi, troppi vincoli, troppe imposte, pochi aiuti dalla burocrazia e difficoltà di accesso ai prestiti. Credo che un aiuto possa venire dall’immissione di forze di lavoro giovani accanto a quelle meno giovani per combinare innovazione, tecnologia, competenza ed esperienza. Un cambiamento non soltanto organizzativo ma anche di mentalità, superando quella che ha, a lungo, dominato tendente alla sostituzione piuttosto che alla complementarità e all’inclusione.  

E le fonti rinnovabili? Avremmo potuto fare di più?

Non sono un’esperta della materia ma le statistiche ci dicono che l’Italia è ai primi posti in Europa per produzione di energia elettrica verde e per il peso della stessa sui consumi. Succede ormai spesso – e lo sottolineo con soddisfazione – che l’Italia non solo mostri entusiasmo rispetto a obiettivi ambientali ma che risponda positivamente a incentivi economici, “reputazionali”, rispetto all’adozione di misure concrete atte a cambiare i comportamenti di consumatori e imprese. Sempre più realtà imprenditoriali si stanno dotando di un “comitato di sostenibilità” per il raggiungimento di valutazioni corrispondenti a standard ESG internazionalmente riconosciuti. E sempre più investitori guardano a questi aspetti nelle loro decisioni di investimento. Naturalmente si tratta di un percorso poco più che cominciato. Che si possa o, meglio, si debba fare di più è reso esplicito proprio dal grande rilievo dato alle misure per realizzare la transizione ecologica nel Next Generation EU, in particolare con l’obiettivo della decarbonizzazione entro il 2050.

L’economia verde può divenire un volano per il rilancio?

L’economia verde mira soprattutto a migliorare il benessere e la salute delle persone attraverso il miglioramento dell’ambiente nel quale viviamo, lavoriamo, ci rapportiamo gli uni agli altri, facciamo business. È un cambiamento nel modo di fare economia non necessariamente per fare più PIL. Si può anche considerare che una maggiore attenzione e cura dell’ambiente e della biodiversità e un uso meno aggressivo delle risorse naturali possa condurre a una meno iniqua distribuzione dei redditi e della ricchezza, in questi ultimi decenni polarizzatisi in diversi Paesi. La transizione verso un’economia verde, in ogni caso, richiede investimenti e gli investimenti sorreggono la crescita economica in due modi. Come parte della domanda aggregata implicano un aumento di produzione nel breve periodo; o come parte del capitale produttivo, contribuiscono ad aumentare il Pil potenziale. Per di più il loro abbinamento, credo inevitabile, con la digitalizzazione dell’economia, può contribuire ad aumenti di produttività del lavoro. Per conseguenza, direi che ci sono i presupposti per un contributo del green economy a una maggiore crescita del Paese, della quale abbiamo molto bisogno. D’altra parte, la strategia del “Prima lo sviluppo poi l’ambiente”, un tempo dominante e che ha caratterizzato l’industrializzazione dei Paesi, non sembra più applicabile a un’economia di servizi e molti Paesi emergenti, anche grazie al “trasferimento di innovazione” e alla spinta verso gli obiettivi ESG da parte delle istituzioni internazionali, a cui sono legati anche gli incentivi e gli aiuti economici, rappresentano una spinta verso modelli di crescita, certo sostenibile, ma sempre crescita. Siamo lontani dall’ideologia della decrescita.   

Il Recovery Fund e gli altri finanziamenti stanziati in Europa saranno sufficienti a ripartire?

Questa è la grande opportunità per l’Europa e per l’Italia: 209 miliardi (12% del nostro Pil del 2019) da spendere entro il 2027 per la ripresa e la resilienza del nostro Paese non sono certo piccola cosa! Non è però manna che cade dal cielo: 127 saranno infatti nuovi debiti peraltro a tassi molto agevolati perché contratti direttamente dall’Europa; 82 saranno invece trasferimenti a fondo perduto, che però andranno coperti dai Paesi membri e perciò anche dall’Italia. Queste risorse, che otteniamo grazie all’Europa, rappresentano un’occasione unica per affrontare gli annosi problemi dell’economia italiana, a partire dalla crescita stentata e dall’occupazione insufficiente per quantità e redditi. Il rischio, molto percepito a livello europeo, è che il nostro Paese non sia in grado di spenderli o, peggio, che li spenda male. Con Draghi a capo del governo[1], i timori sono decisamente ridimensionati. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza sarà riscritto, dettagliando di più e meglio sia gli specifici progetti di investimento, sia le riforme da attuare nel periodo. I finanziamenti ci saranno dati solo per investimenti – la cui realizzazione sarà controllata passo dopo passo – e per riforme. Sugli uni e sulle altre incombono però forti rischi: non si tratta soltanto, per i primi, di infiltrazioni della criminalità organizzata, di corruzione, incuria e inefficienza ma anche della possibilità che le risorse siano dissipate in attività “decotte”, incapaci far aumentare il capitale fisico, umano e sociale del Paese e perciò il potenziale di crescita (oggi prossimo a zero). Sulle riforme, che sono “investimenti sociali”, grava in particolare il rischio di inefficacia, come troppe volte in passato. Le riforme, infatti, dovrebbero “correggere” qualcosa che non funziona nel comportamento di istituzioni, cittadini, imprese, mercati. Senza una diagnosi condivisa degli errori passati, qualsiasi “ripartenza” sarebbe un fuoco di paglia, destinato a spegnersi entro pochi trimestri. Riforme sterili si trasformerebbero così in un’ennesima “occasione perduta”, questa volta imperdonabile.

Il debito pubblico italiano è inevitabilmente destinato a crescere. Qual è il futuro delle nuove generazioni?

Il debito pubblico italiano, anche per effetto delle misure anti – Covid ha raggiunto a fine 2020 la soglia del 160% rispetto al Prodotto Interno Lordo. Il Recovery Fund alzerà questo rapporto giacché 127 dei 209 miliardi di euro che ci saranno dati dall’Europa saranno rappresentati da debito. Il debito è una nuvola densa sul futuro del nostro Paese che può “rompersi” in un uragano senza tanti preavvisi. Che questo accada, o meno, dipende essenzialmente dalla crescita dell’economia e dal tasso di interesse che grava sul debito. Oggi il tasso è basso per effetto della politica monetaria molto espansiva inaugurata alla BCE da Mario Draghi e proseguita da Christine Lagarde. Non è detto però che questa possa continuare indefinitamente a “inondare” di moneta il sistema economico. E al salire del tasso crescono gli interessi che lo stato e le amministrazioni pubbliche debbono sborsare e si riducono le risorse disponibili per consumi e investimenti delle imprese. Perciò è essenziale che i finanziamenti ottenuti con prestiti siano utilizzati per far crescere l’economia e non per sostenere i consumi correnti. E per far crescere l’economia occorrono, come già detto, investimenti in capitale fisico, in infrastrutture e in capitale sociale, ossia in istruzione, ricerca, innovazione e qualità dei servizi pubblici.       

“Riforma Fornero” vs “Quota 100”. Oggi che riforma delle pensioni proporrebbe?

La riforma delle pensioni del 2011 fu fatta in condizioni di emergenza finanziaria nell’ambito di un pacchetto di misure adottate per salvare il Paese dalla bancarotta. La riforma andava incontro a richieste di cambiamento strutturale del sistema previdenziale troppo a lungo disattese; richieste motivate, peraltro, dall’insostenibilità del precedente sistema a causa sia dell’invecchiamento della popolazione, sia di regole di determinazione delle pensioni troppo generose e spesso introdotte per motivi di consenso politico. Nessuna riforma nasce perfetta, neppure quelle lungamente preparate. La riforma del 2011, che andava sicuramente nella giusta direzione avrebbe dovuto essere presentata ai cittadini, e con loro discussa, direttamente o attraverso le parti sociali, molto più di quanto fu in effetti possibile. Avrebbe dovuto essere monitorata, aggiustata, anche emendata, come normalmente si fa con le riforme. Invece fu presto ripudiata dalle stesse parti politiche che l’avevano approvata a grande maggioranza, e inoltre “aggredita”, da quelle che erano all’opposizione, in nome del “populismo”. Quota 100 è nata, anche sulla base di bugie e facili illusioni, non già per “aggiustare” quella riforma ma per ottenere un immediato consenso elettorale. La sostituzione di anziani con giovani non ha funzionato e molti soggetti in difficoltà sono rimasti fuori, a cominciare dalle donne. Non credo che quota 100 sarà rinnovata mentre auspico un allargamento dell’APE sociale alle categorie in difficoltà e magari dell’APE volontaria per coloro che hanno buone ragioni per il pensionamento e sono disposti ad accettare una pensione interamente contributiva. La cosa importante è che non si torni, in nome di apparenti buoni obiettivi di breve periodo, a sacrificare le generazioni giovani e future, troppe spesso già prive di opportunità.     


[1] L’intervista è stata realizzata nel momento in cui Draghi stava ultimando la formazione del Governo.